What if…parlassimo in italiano?

È innegabile che la lingua italiana sia influenzata da termini ed espressioni (ma anche strutture sintattiche) inglesi, che sono ormai diventati d’uso comune. Si tratta però più di un fenomeno che cerchiamo di gestire, che di una realtà linguistica spontanea e consolidata. Sebbene tali termini siano presenti e (spesso “caoticamente”) diffusi nella nostra quotidianità, non tutti li usano in modo consapevole e soprattutto nei giusti contesti. In alcuni casi, i parlanti hanno una competenza orale ma non ne hanno una competenza scritta, in altri casi sorgono problemi di comprensione e difficoltà nel padroneggiare appieno termini con cui spesso siamo costretti a familiarizzare e che diventano parte del nostro bagaglio linguistico-culturale da fonti esterne (lavoro, pubblicità, media…) e non dal nostro background (per i puristi della lingua italiana: “contesto”) familiare.

La lingua italiana tuttavia non è l’unica ad essere destinatario delle spinte centrifughe dell’inglese, sebbene la risposta sia talvolta diversa.

Alcune lingue infatti oppongono resistenza, o almeno ci provano, mentre altre si abbandonano a tali ingerenze in una sorta di autodifesa, assecondandole e a volte incoraggiandole, in un misto di sudditanza e attrazione. È il caso della lingua italiana. 

Una premessa sullo scenario linguistico mondiale. Partiamo dal presupposto che la lingua inglese è ben più antica di quella italiana (la nascita dell’Old English si fa corrispondere all’arrivo sulle coste britanniche delle tribù germaniche, intorno al 500DC – o 500AD, come preferiscono appunto nei paesi anglosassoni) e ha il lessico più ampio rispetto a qualunque altra lingua del mondo, con la conseguenza che anche il lessico giornaliero mediamente utilizzato comprende un numero maggiore di vocaboli (si stima che un inglese utilizzi circa 20000 parole al giorno, contro le 7000 utilizzate, in media, da un italiano).

Le lingue ufficiali esistenti al mondo sono invece più di 140, ma considerate anche quelle non ufficiali, il numero sale a ben 6000

Come mai allora non sapremmo elencarne più di qualche decina? È evidente che alcune di queste lingue riescono ad esercitare un certo controllo su altre, il che ha contribuito ad una certa diffusione e, se vogliamo, “priorità” linguistica (la diffusione linguistica difficilmente avviene in modo pacifico; generalmente avviene a scapito di un’altra lingua, in situazioni di tensioni linguistiche che spesso sfociano in disagio identitario). Per esempio la lingua inglese è, in questo senso, la lingua dei record. Ha conosciuto una diffusione, specie a partire dal primo dopoguerra, che l’ha resa la lingua con la più grande comunità di parlanti non madrelingua (per i quali l’inglese è una seconda lingua o lingua di studio/lavoro), il cui numero supera ormai quello dei madrelingua. E la sua influenza non risparmia la lingua italiana.

Chissà cosa pensano gli inglesi quando sentono un italiano usare dei termini inglesi in un discorso in lingua italiana. Proveranno un senso di orgoglio? Un senso di responsabilità? Forse la troveranno una cosa del tutto normale, oppure ne saranno positivamente e felicemente stupiti. A mio parere, pensano che siamo un po’ buffi. Credo che la reazione sia un po’ come la nostra quando li sentiamo usare dei termini italiani, magari pronunciati in modo sbagliato o addirittura “storpiati”. “Pepperoni” è un classico, lo so, ma come non sorridere (e rimanere sconcertati!!) davanti ad un neologismo del genere? Il termine italiano “peperone” è usato al plurale, con una pronuncia forte (l’italiano all’estero è imitato in modo marcato, scandito) che nello scritto si riproduce con la doppia P, e il termine così coniato è associato, diversamente da quel che si possa credere (anche se, dopo quasi un secolo dalla sua nascita, ormai lo sanno in molti….), ad un tipo di salame (non ai “peperoni” nostrani) americano. E a tal proposito, “salame” è “salami”, sempre al plurale, che poi esiste anche nella lingua italiana, ma usato diversamente e, per noi, “in modo sbagliato”. E quindi credo che anche noi in realtà, che possiamo vantare una generazione di Millennials (ancora, per i puristi, “Generazione Y” o “Generazione Z”) molto più english-friendly (“simpatizzante della lingua inglese” o semplicemente “anglofona”, sebbene il termine in quest’ultimo caso abbia un significato diverso rispetto a english-friendly) rispetto alle generazioni precedenti, che impariamo la lingua inglese sin dall’asilo nido, che partecipiamo a programmi Erasmus (dalla loro nascita 30 anni fa, in continua crescita gli studenti italiani che decidono di partire, posizionando l’Italia al quarto posto a livello europeo), eccetera…anche noi, dicevo, usiamo anglicismi un po’ goffamente, pronunciandoli all’italiana, escludendo tout-court un corrispondente italiano che spesso, ci crediate o no, esiste!! 

Eppure, chi dice “vado a fare osservazione degli uccelli”? L’osservazione degli uccelli esiste, in quanto hobby (noi diremmo o dovremmo dire “passatempo”) e in quanto nome di tale pratica. Ma semplicemente non si dice: in italiano si dice “andare a fare birdwatching”. Che poi in inglese dicono “go bird watching”, letteralmente “andare bird watching” (esattamente come dicono “go shopping” e non “andare a fare shopping”), e con la scrittura, più comune, “bird watching” (staccato, con o senza trattino), in luogo del “nostro” birdwatching. Un discorso analogo si potrebbe fare con “car sharing”, che tutti sappiamo essere “un’auto condivisa” ma chissà come sostituiamo quest’idea “calda” di “condivisione” (a me rievoca sensazioni legate all’affetto, al calore, forse perché l’etimologia in questo caso è immediata e il termine stesso significa appunto “dividere con qualcuno”) con un termine forse più “smart”, facile, breve, immediato. Il discorso si complica con “car pooling”, il cui omologo “auto di gruppo” non è, di fatto, mai esistito nell’uso comune. Tuttavia, come dicevo all’inizio di questo articolo, permane la difficoltà nel padroneggiare appieno queste diverse definizioni, e nell’ associarle alla giusta realtà. Discorso diverso per quanto riguarda invece l’uso dei prefissi “under” e “over”, di cui non esiste corrispettivo italiano, nelle età. Dire “under20” significa “coloro che hanno meno/più di” ed è pienamente assimilato nella comprensione di un italofono. Concludo con un termine che è piuttosto un nome: “Gardaland”. Letteralmente “Terra di Garda”, ricorre a land con valore di suffisso.

È curioso il fatto che al primo parco di divertimenti mai costruito in Italia (la sua costruzione risale al 1975), nonché il più grande d’Italia, non si sia dato come nome, appunto, “Terre del Garda” o un qualunque altro nome che ad ogni modo richiamasse la lingua e la realtà italiane.

E ciò è emblematico del fatto che la lingua inglese è spesso “la scelta”, per ragioni di visibilità, di marketing, d’immagine.

Stiamo familiarizzando con i termini inglesi al punto da non renderci quasi conto della presenza importante negli ambiti più svariati. Ma è proprio l’abitudine che dovrebbe farci fermare e riflettere.

Tempo di lettura: 5 minuti

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Pubblicato da Vanessa Bruno

Traduttrice

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4 commenti

  1. Ciao Vanessa condivido in buona parte il tuo pensiero. Tuttavia ritengo che alcune parole, quali friendly, sharing o under/over che citi nel testo, esistono in italiano ed esprimono esattamente lo stesso concetto. Ad esempio anglofilo esprime esattamente la stessa idea di english friendly, o ancora il prefisso CO- può chiaramente indicare la condivisione come l’inglese sharing ( in Francese carsharing diventa covoiturage, e in italiano si sarebbe potuto rendere con un più italico ‘ covetturaggio,’ in mancanza di migliori proposte). Per under/over si sarebbe potuto ricorrere a infra/ultra ( gli infra20, gli ultra60) o più basicamente i meno/ più di… Ed il Bird Watching non è semplicemente un’osservazione ornitologica? O se proprio vogliamo un unico termine si potrebbe coniare la parola videornitologia….se è vero che sono così tanti gli italiani che osservano degli uccelli da giusticare un vocabolo specifico. Poi ci si può anche porre la domanda se dobbiamo per forza importare dall’inglese, con o senza traduzione, tutti i vocaboli e concetti( perché non riserviamo lo stesso trattamento per il cinese, il giapponese o qualsiasi altra lingua?). L’italiano deve descrivere la realtà scimmiottando gli Stati Uniti o deve piuttosto possedere una propria identità linguistico-culturale che, in modo differente, analizza e codifica il mondo?

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    1. Ciao CBA non è esattamente così…termini quali friendly, sharing o under/over NON esistono nella lingua italiana, vengono utilizzati da parlanti italofoni in quanto anglicismi e fanno parte della nostra lingua in quanto tali. E “anglofilo” significa che “è proprio della lingua/cultura anglosassone”, quindi evidentemente NON ha lo stesso significato di “english friendly” (un paese english friendly non è necessariamente anglofilo, ad esempio). Sono assolutamente d’accordo sul fatto che in italiano si sarebbe potuto ricorrere ad un traducente anzichè ricorrere all’adozione di un termine straniero che a volte quasi “stride” con la nostra cultura, ed è proprio quello che intendevo dire, che avremmo potuto coniare molti termini optando quindi per un neologismo invece che ricorrere ad un forestierismo (qui è evidente la scelta per il termine inglese ma il discorso si estende ai forestierismi in generale). A tal proposito ti invito a leggere l’articolo al link https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/carpooling-e-car-sharing-nuovi-modi-di-viaggiare-e-nuove-parole/902 in cui si discute appunto sulla differenza tra car sharing e car pooling. Ho trovato l’articolo interessante perchè fa riflettere sui motivi per cui prevale il forestierismo su un traducente inesistente o su un traducente che esiste ma che non riesce ad imporsi. La mia personale opinione è che non sempre è obbligatorio il neologismo (termine ex-novo o termine già esistente a cui si attribuisce un nuovo significato). La lingua infatti è lo specchio e il riflesso della cultura in cui si forma, quindi se quel termine è associato ad un prodotto/tradizione/realtà/ecc di una specifica cultura, allora trovo giusto mantenere il termine originario e ricollocarlo nella lingua di destinazione. Se però parliamo del car sharing ad esempio, ovvero di una pratica/attività esistente in paesi diversi tra loro, con peculiarità diverse (tra cui politiche, servizi, città in cui è attivo il servizio…), allora perchè non ricorrere ad un traducente? Non lamento l’assenza dei terminologi, che anzi spesso propongono termini alternativi a quello straniero. Lamento piuttosto il fatto che in alcuni casi non è possibile creare il termine alternativo (per motivazioni che non ti sto ad elencare, ma direi che il link sopra dia validi spunti di riflessione…), mentre in altri l’uso del termine alternativo non è stato adeguatamente incentivato, a causa di politiche in ambito linguistico che in Italia purtroppo mancano….motivo per cui dire “mi dedico all’osservazione ornitologica” è meno comune (se non “strano” e quasi incomprensibile) rispetto a “pratico birdwatching”!

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      1. Se non segui Antonio Zoppetti, lui descrivere molto dettagliatamente il fenomeno degli anglicismi a cui faccio riferimento nel suo blog ‘diciamolo in italiano’.

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  2. Ni 😄 φικος in greco significa amico, che ama…da cui -filo. Anglofilo esprime a giusto titolo la stessa idea di english friendly. E ammesso che il primo non abbia quella sfumatura del friendly(!), nulla toglie di ampliarne il senso. Come è il caso di ratón in spagnolo o sourie in Francese che hanno naturalmente esteso il significato a quello che noi invece chiamiamo… mouse! Perché topo non andava bene? Ci sono certamente foresterismi che hanno senso, vuoi per la loro connotazione culturale, vuoi per la specificità del termine. Penso ad esempio a bar, tunnel, cliché, tsunami. Ma altri sono stati a giusto titolo adattati perché non era cosi impensabile in italiano. Light bulb diventa allora lampadina: anche se non vuol dire esattamente bulbo di luce, indica esattamente la cosa. E l’americanissimo tomato diventa lo splendido pomodoro, che non suona meno strano che ‘uscita ornitologica’ 😄😄. Comunque ciò che in fondo mi fa torcere il naso è l’abuso acritico degli anglicisme, ad immagine del servilismo italiano verso il padrone statunitense.

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