Il testo che segue testimonia l’importanza della figura del traduttore in quanto ponte tra mondi linguistico-culturali diversi e in alcuni casi molto distanti. Il testo originale è in spagnolo, per chi desidera propongo qui sotto la traduzione in italiano.
La traduttrice dell’inondazione: parla la lingua indigena e ha avuto un ruolo chiave nell’aiuto agli sfollati
Grazie a lei le autorità hanno potuto comunicare con le persone colpite che non parlano lo spagnolo. Ora collabora nei centri di accoglienza per rifugiati.
In Argentina esistono migliaia di argentini che non parlano il castigliano. Non sanno cos’è un bagno, non hanno mai mangiato uno yogurt. Mangiano pesce tutti i giorni, non hanno mai visto un medico e non sono mai nemmeno entrati in una scuola.
Le inondazioni causate dall’ingrossamento del fiume Pilcomayo hanno costretto molti ad evacuare in diverse città e nei paesi vicini. Uno di questi luoghi è Aguaray, che ha messo a disposizione le sue scuole affinché fossero utilizzate come centri di accoglienza per sfollati. È lì dove ora “criollos” (creoli) convivono insieme alle comunità colpite appartenenti alle popolazioni native. In tale contesto e nell’attesa di tornare a casa, la convivenza si fa sempre più difficile.
Come si dice ad una persona che non ha mai visto un wc, che per pulirlo deve tirare la catena per far scorrere l’acqua?
È questa la domanda che si è fatta Mary Organivia, la direttrice della Gauchos de Güemes, quando nella sua scuola hanno iniziato ad arrivare oltre 200 persone della comunità Wichi. Con segnali, con gesti, parlando lentamente. Qualunque cosa, pur di far capire agli sfollati come funzionano le cose in una cultura che per molti di loro è difficile da capire.
Io spiegavo ad alcune donne che dovevano spazzare le aule, tenere il più pulito possibile, ma loro mi guardavano senza far nulla. Non sapevo come dirglielo. Fu allora che arrivò Cristina, e nel suo dialetto ha detto loro ciò che dovevano fare. A quel punto tutte si sono messe a lavorare e ci siamo resi conto che a lei la capivano”, dice Rosa Ferrari, vice direttrice della scuola.
Cristina ha 38 anni ed è nata a Pozo de la Yegua, un posto devastato dal Pilcomayo, talmente pieno di melma e fango che i suoi abitanti non possono tornare a casa. Racconta a Clarín di aver lavorato per diversi anni come bambinaia in una casa di Tartagal, dove le hanno insegnato le abitudini di quelli che lei chiama “criollos”.
“Non sapevo salutare, camminavo con la testa china e non capivo che dopo aver mangiato si dovevano lavare i piatti. Noi viviamo in un altro modo”, dice.
In tutto questo tempo Cristina si è trasformata in una specie di traduttrice che contribuisce alla convivenza pacifica. Nei centri di accoglienza per sfollati vi sono Wichis, Chorotes e Chané, che parlano nei propri dialetti che si mescolano con il guaraní: “Le maestre mi avvisano quando è l’ora di mangiare e io lo dico a loro. Oppure, quando le donne mi dicono che hanno fame io lo riferisco alle maestre”, racconta seduta nel cortile della scuola, che ora è un enorme refettorio pubblico dove i banchi sono i tavoli per pranzare o cenare.
Per darti un’idea, le catene delle cassette di scarico del wc le hanno tolte e le hanno usate come collane e braccialetti”, dice Rosa con stupore, e scoppia a ridere come in reazione a qualcosa che in realtà fatica a credere.
È che le differenze culturali sono abissali, nonostante li separino solo 100 chilometri.
Ad esempio, nei centri di accoglienza ci sono bambine incinte di 12, 13 e 14 anni: “Per loro è un fatto culturale. Quando la ragazza ha il suo primo ciclo mestruale può formare una famiglia. È qualcosa di ancestrale che non cambieranno mai”, cerca di spiegare Rosa.
Accanto a lei c’è Cristina, che ha quattro figli e due nipoti. Annuisce, e poi le si riempiono gli occhi di lacrime quando racconta che da poco, per la prima volta nella sua vita, ha comprato un frigorifero e che ora l’acqua se l’è portata. Piange in un angolino, ma si asciuga presto gli occhi. Dice che se le altre donne vedono che qualcosa non va, poi si preoccupano pure loro. Allora si alza. È mezzogiorno, e va a dire loro che è l’ora di pranzo.
(traduzione mia)